Stefano Piedimonte – Nel nome dello zio

Intervista_piedimonte

di Renée Battistello

Fama, successo, soldi. tanti soldi, tantissimi. E soprattutto notorietà.
Sono queste le caratteristiche che accomunano due mondi, due realtà, due universi così apparentemente distanti come la camorra e il Grande Fratello.
Non quello di Orwell, chiaro, ma quello di Endemol.
Due mondi paralleli che sembrano destinati a non sfiorarsi mai, se non per pura accidentalità, ma può capitare di scoprire che in realtà sono figli degli stessi desideri e ambizioni di una cultura malata e grottesca.

Stefano Piedimonte, autore napoletano che si divide tra scrittura romanzesca e giornalistica, tra immaginazione e cronaca, con il suo Nel nome dello zio (Guanda, Parma 2012) ci consegna proprio questa decodificazione del mondo mafioso e di quello dello show dell’uomo comune. Un capo della camorra, lo zio appunto, con la passione per il reality per eccellenza, tanto da arrivare a serrarsi in casa al momento delle avventure dei protagonisti gieffini, è il protagonista principale, ma la fitta schiera di personaggi che lo circonda non è certo meno surreale. Una serie di personaggi fin troppo reali nella loro tragica caricaturalità.

«Per strada ci sono centinaia di persone impunite, che non sono mai state inserite in un romanzo», afferma l’autore, quasi offeso per il loro immeritato anonimato. Ci racconta di come la cronaca quotidiana possa superare di molto la miglior trovata romanzesca, di come la bravura di uno scrittore, ormai, sia nel «togliere il meno possibile dalla realtà, invece che aggiungere». I fatti reali sono già abbastanza saturi di surrealismo, per lasciar spazio alla creatività, la natura umana arriva a tali livelli di alienazione da non necessitare ulteriori rincari da parte dell’autore.

La scrittura di stampo giornalistico si mescola ad un linguaggio ironico e beffardo, «il più adatto per trattare certi argomenti», anche perchè la tragicomicità, la risata amara, quella che quando muore ti lascia un fondo di rabbia, è ciò che Piedimonte definisce una sorta di “presa a terra”: è uno sfogo, un mezzo per esorcizzare il senso di impotenza che ci coglie di fronte a fenomeni forse ormai troppo radicati per poter essere estirpati.
«Una risata vi seppellirà»
diceva qualcuno.E anche lui ride, insieme a noi e a Francesca Boccaletto, giovane giornalista del Corriere del Veneto che modera l’incontro trasformandolo in una chiaccherata amichevole, alleggerendo l’atmosfera un po’ sonnacchiosa dovuta all’orario post-lavorativo.

Lo scrittore-giornalista campano, che confida di quando si divertiva ad immaginare quale storia vi fosse dietro i volti delle foto segnaletiche che riceveva in ufficio, non si limita certo ad una rappresentazione da Freak show. Non è una carellata di casi umani contemporanei la sua, non c’è superficialità, nè buonismo in ciò che descrive.
I protagonisti di Nel nome dello zio non sono mai del tutto negativi, personaggi ad una dimensione, ma accolgono anche sfumature di ingenua semplicità. E chi lavora nel mondo della cronaca nera sa meglio di chiunque altro che la totale corruzione dell’animo umano non esiste, come non esite la totale incorruttibilità.
Non solo non esiste, ma è follia pura.